Quando a Palermo si dice
pasta al forno, la mente vola agli
anelletti, pasta a forma di cerchietto che, si narra, sia stata prodotta ad
imitazione degli orecchini delle donne africane. L’anelletto è l’attore
principale, l’eroe epico di questo piatto ricchissimo. Combatte e si avviluppa
in lotte corpo a corpo con tutti gli altri ingredienti con i quali si mescola,
danza, si aggroviglia creando un prelibato campo da gioco tutto da mangiare.
“A pasta
o furnu” – anticamente “u pasticciu ’ri
sustanza” è un cult della cucina palermitana e non ha “stagione”, può
andare bene a Natale, per Pasqua, per la scampagnata del 25 aprile o del 1
maggio, ma anche a Ferragosto sotto l’ombrellone, davanti al mare. È un piatto
trasversale che soddisfa i palati di chi è ricco e di chi non lo è,
dell’intellettuale e del sempliciotto, di uomini, donne, vecchi e picciriddi (bambini).
La storia “rù pasticciu ri
sustanza” va ancora una volta collegata agli Arabi, maestri negli sformati.
Anche questo timballo, come tutte le ricette della tradizione, può essere
considerato “piatto anti-crisi” visto che veniva realizzato riciclando ciò che
rimaneva in dispensa, abitudine che in un certo qual modo permane visto che
spesso ci “cafuddiamo” (schiaffiamo) dentro quello che abbiamo in casa. Fondamentali però sono due cose: “’u ragù c’a carni capuliata” (il ragout
con il tritato), possibilmente arricchito con i piselli, e la quantità: non si fa mai
per poche persone e, se dovesse rimanere, anche saltata in padella la sera o il
giorno dopo ha "il suo perchè".
Come per tutte le altre ricette
della cucina siciliana anche di questa non ne esiste una sola versione, ma
tante quante sono le famiglie palermitane. Io vi scrivo la mia.