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venerdì 31 gennaio 2020

Marmellata di Mandarini Siciliani



Nelle mattine invernali, all'inizio del giorno quando ancora il sole non splende alto, l’aria è rarefatta e pungente. La Conca D’Oro inizia ad illuminarsi e la sua luce è incantevole. In giardino l’odore forte della terra umida si mescola al profumo intenso degli agrumi. Pendono dagli alberi come addobbi natalizi, con i loro colori sgargianti in mezzo a sfumature di verdi accesi. Immersi in un’atmosfera fiabesca, bambini, io e mio fratello, rimaniamo ammaliati a sentire il suono della natura che ci avvolge.
I miei preferiti sono i mandarini, lucidi, arancioni, aromatici e dolci. Li guardo pendere fieri della loro bellezza che attrae: “Prendimi! Prendimi!” sembrano sussurrare e mi fanno pensare alle sirene di Ulisse che sto studiando a scuola. “Mamma, possiamo?”. Autorizzati con un cenno, ci fiondiamo a cercare i frutti più belli per riempire la cesta che nostra madre ci ha dato; ma prima è obbligo farne una sostanziosa scorpacciata.
Questi ricordi di qualche tempo fa, mi sono stati evocati da un gradito regalo che mio fratello mi ha fatto qualche giorno fa: un cesto colmo di mandarini appena raccolti. Alcuni li ho mangiati subito, gli altri li ho trasformati in buonissima marmellata. Eccovi la ricetta, semplice, veloce e genuina.


Ingredienti: 1 kg di mandarini (già nettati e pronti alla cottura); 1 kg di zucchero semolato; un pizzico di sale; il succo di mezzo limone.
Procedimento: Sbucciate i mandarini. Da metà delle scorze eliminate con un coltellino l’albedo - la parte bianca – perché potrebbe conferire un gusto troppo amaro alla conserva. Tagliate i mandarini in sottili fette in un piatto, così da non perderne il succo, e rimuovete i semi (le ossa, diremmo a Palermo, dove non si sa per quale ragione ai frutti vengano associati termini anatomici…ma questa è un’altra storia). Riponete tutti gli ingredienti in una pentola, meglio, ça va sans dire, se di rame, e fate cuocere per circa 15 minuti su fiamma vivace. Trascorso questo tempo, tritateli con un frullatore ad immersione tanto quanto vi sembra necessario (tutto dipende da come preferite la texture della marmellata). Continuate a cuocere per altri 10 minuti o fin quando il liquido di cottura scenderà ad intermittenza, e non a filo, dal cucchiaio. Spegnete il fuoco e invasate rapidamente, avendo cura di riporre i vasetti sottosopra così da far sterilizzare il coperchio. Rigirateli dopo 5 minuti e lasciate raffreddare avvolti da una “manta”, conosciuta da i non siculi come coperta.

La marmellata è pronta per essere gustata come più vi piace, anche con i formaggi aromatici come i pecorini al pepe o allo zafferano.
Buone cose genuine e odorose a tutti!

domenica 16 settembre 2018

Harissa tunisina



La luce accecante del sole ancora alto, le strade polverose, la gente che si affolla tra i banchi del mercato, chi abbannìa (bandisce la propria merce, per i non oriundi siculi), chi compra, chi chiede informazioni e poi va via per ritornare poco dopo a contrattare, chi gira per farsi un’idea di cosa e dove comprare. Se non fosse per la preghiera del mujahidin che, ammaliante come il canto delle sirene di Ulisse, si diffonde nell’aria per attrarre i fedeli, giurerei di essere a Palermo.

Sono, invece, tra le viuzze della casbah di Tunisi, un posto magico per tutti coloro che, come me, amano le spezie. Vengo attratta da lunghissimi banconi, pieni di decine e decine di barattoli, contenitori e grandi sacchi di juta che traboccano di polveri colorate, foglie e frutti. Vengo avvolta da profumi che inebriano i sensi e fanno volare la fantasia in storie dal sapore orientale. Provo a comunicare con la grassa signora in abiti tradizionali che, con gesti e voce mielata, mi invita a comprare ed io non riesco resistere al suo corteggiamento. E così, felice come una bambina, riempio la sporta di spezie, tè ed infusi vari e, soprattutto, peperoncino.

Ritornerò in Sicilia con un bottino da Mille e una notte e, finalmente, potrò realizzare l’harissa con la ricetta originale affidatami dalla mia splendida amica tunisina Meryem Yacobi, alla quale sarò per sempre riconoscente per voler condividere con me le sue tradizioni.

lunedì 18 dicembre 2017

Il Buccellato

Che ci fossero quaranta gradi all’ombra o il vento di tramontana che taglia la faccia, lui arrivava sempre con la sua vecchia bicicletta nera. Ne scendeva lentamente e la legava con la catena al piccolo palo del lampione che avevamo sotto casa.

Aveva ottant’anni lo zio Giulio. Era uno dei fratelli di mio nonno, un uomo alto, ligneo e parlava poco e lemme. Sorrideva spesso. Aveva un sorriso strano però. Mostrava tutti i denti, però li teneva stretti come se ringhiasse. Io lo ricordo sempre vecchio, ma con una forza fisica incredibile per un uomo della sua età.

Lo vedevo arrivare dalla finestra, lo aspettavo perché ogni volta che veniva a casa nostra ci insegnava a preparare delle vere leccornie palermitane. E in un lontano mese di dicembre imparai a fare il buccellato: un bauletto di friabile pasta frolla che nasconde un ripieno morbido  di frutta secca, cioccolato fondente, agrumi e spezie. Un dolce rustico ma degno di re e regine, tanto che nel medioevo i vassalli lo omaggiavano ai signorotti (per chi fosse interessato alla storia del buccellato si veda: Taccuini Storici).

Si prepara per le feste natalizie in tutto il palermitano, ma la “conza” - il ripieno, per i non oriundi - varia a seconda della località in cui viene prodotto: con i fichi, con l’uva sultanina, con la composta di zuccata e mandorle, eccetera.

E dopo tante chiacchere, eccovi la ricetta dello zio Giulio con una mia piccola variante; io, infatti, sostituisco metà dei fichi con l’uva sultanina per ottenere un ripieno più morbido e fondente.

lunedì 14 novembre 2016

La Cotognata. Un dolce dal sapore antico




"Attenta a quello che raccogli, quello è il frutto del peccato. È proibito prenderlo". E così, proprio per il sottile e viscerale piacere di infrangere le regole, con elegante determinazione,  allungò il suo bianco braccio e ne strappò uno.


Ma, in realtà, cos'è il peccato. Se tutto è relativo, anch'esso lo è; foss'anche solo per il semplice sillogismo che lo sostiene. Se è peccato: soddisfare le proprie pulsioni (sempre non facendo male ad altri); non accettare le regole come dogmi; non sottostare al potere (qualunque esso sia); non uniformarsi; sapersi porre dei dubbi, allora sono una peccatrice.

Si, lo sono, anche perché quel frutto l’ho colto e l’ho anche cucinato. E il risultato è stato un’eccellente cotognata.

Volete diventare dei bravi peccatori anche voi?
Ecco la ricetta. Quella antica.

sabato 14 maggio 2016

La "Frittella" palermitana


Per prima cosa è giusto specificare che, nonostante il suo nome, in questa preparazione della tradizione palermitana non c’è niente di fritto. L’origine del nome si perde nel passato, possibilmente il termine che usiamo oggi è una storpiatura di quello vero. Fatto sta che, a Palermo “frittella” è sineddoche di uno squisito stufato di verdure.

Per tradizione si cucina il giorno di San Giuseppe (19 marzo) che coincide con l’inizio della primavera, fondendo così la celebrazione dei riti religiosi ai riti pagani.

La frittella la possiamo definire come la sintesi della Primavera nel piatto. È la celebrazione dei frutti che la terra ci offre in questo periodo: fave, piselli, carciofi e cipollotti freschi, legati insieme da una soluzione agrodolce di aceto e zucchero, retaggio della cucina araba. Esiste anche una variante ennese che prevede l’aggiunta del finocchietto selvatico.

Senza l’agrodolce può diventare anche un ottimo condimento per la pasta, aggiungendo qualche fogliolina di menta o di prezzemolo.

Anche per questo piatto vale la regola secondo cui “ne esistono tante versioni quante sono le famiglie che la preparano”. Ecco la mia.

venerdì 4 marzo 2016

'A pasta "a milanisa" o con l'anciova


A chi, come me, è nato e cresciuto a Palermo, sarà capitato almeno una volta nella vita di ritrovarsi di giorno tra i vicoli del centro storico. I panni stesi con le lenzuola che sventolano come grandi bandiere, i bambini che ancora giocano per strada, i gatti randagi che gironzolano sornioni alla ricerca di qualcosa da mangiare, gli odori dolci e pungenti che dalle cucine si riversano nelle strette strade tortuose e si diffondono prepotenti nell'aria, le donne che vocìano da finestra a finestra mentre spicciano i lavori di casa e, soprattutto, cucinano per il pranzo. “Pina, ma comu a fai a pasta st’innata? C’è un ciavuru!”. “Nie’, oggi fazzu cose spiccie. Staju facennu a Milanisa”.

Lo so cosa vi state chiedendo: una palermitana che fa la pasta alla milanese? Ebbene si! Dopo attimi di disorientamento che colpirono anche me la prima volta che lo sentii - non riuscivo a spiegarmi perché una palermitana avesse dovuto preparare la pasta come a Milano - mia nonna Nella mi spiegò che era la pasta con l'anciova[1], uno dei primi più famosi della cucina siciliana. Un piatto gustoso, fatto con le acciughe salate, l’estratto di pomodoro, passolina e pinoli[2] e la muddica atturrata (pangrattato tostato), il formaggio dei poveri.

Come per ogni ricetta, anche questa conosce diverse varianti più o meno simili e il suo nome è strettamente legato, come tutti i piatti tradizionali, alla storia, al territorio e alla sua gente.
Si narra, infatti, che questo piatto sia nato come alternativa, molto valida, alla ben più famosa pasta con le sarde, la cui preparazione era però limitata alla primavera e all'estate, stagioni durante le quali sono reperibili gli ingredienti freschi per realizzarla.

Un altro importante fattore era costituito dal costo molto elevato di uno degli ingredienti fondamentali del famoso primo, lo zafferano, che non tutti si potevano permettere. Venne così sostituito dall'astrattu (estratto di pomodoro) che conferiva alla nuova elaborazione un colore vagamente ambrato.

Ma torniamo all'origine del nome di questa non meno buona cugina della pasta con le sarde, fatta solo con prodotti di “conserva”, che hanno il duplice vantaggio di essere disponibili tutto l’anno e, soprattutto, sono non deperibili e facilmente trasportabili.
Queste caratteristiche hanno fatto ipotizzare ad alcuni studiosi delle tradizioni che la “pasta c’anciova” sia stata inventata dagli emigranti siciliani, i quali durante l’estate, nella propria terra d’origine, facevano incetta di una serie di cibarie che portavano nel freddo Nord e che cucinavano per non scordare i profumi e i sapori della Sicilia. Ecco il motivo per cui questo primo piatto, assolutamente siciliano ma inventato in terra straniera, viene appellato “alla milanese”; considerando anche che per lungo tempo in Sicilia si diceva Milano intendendo però tutto il nord Italia.
Adesso è arrivato il tempo di descrivervi la ricetta. Vi darò naturalmente la versione della mia famiglia che prevede l’uso del concentrato di pomodoro al posto dell’estratto e non considera l’uso del finocchietto selvatico, fortemente odiato da mio fratello Dario.

PS: a Palermo è quasi obbligatorio anche il formato di pasta da usare: o la margherita o il bucatino. Molti non transigono, ma io ho rotto la tradizione ed ho usato i rigatoni. Credetemi, connubio perfetto tra il sugo e la pasta.


Ingredienti (per 4 persone): 400 gr. di pasta del formato che più vi aggrada; 200 gr. di concentrato di pomodoro; 8 filetti di acciughe sott’olio o salate; 1 grossa cipolla; 2 spicchi d’aglio; 25 gr. di passolina e pinoli; 100 gr. di pangrattato; olio extravergine d’oliva, sale e pepe q.b.

Procedimento: In una padella in cui potrete poi mantecare la pasta, soffriggete a fuoco lento la cipolla e l’aglio tritati. Quando la prima sarà trasparente, unite i filetti d’acciuga e scioglieteli nell’olio con l’aiuto del cucchiaio di legno. A questo punto, aggiungete il concentrato di pomodoro, passolina e pinoli e un bicchiere di acqua calda. Fate cuocere per circa 20minuti, salando e pepando secondo il proprio gusto. Il sugo dovrà risultare ben stretto. Cuocete la pasta e, nel frattempo, tostate il pangrattato in un padellino antiaderente (alcuni lo fanno saltare con altro olio, io preferisco senza aggiungere condimenti in questo caso perché la salsa ne è già molto ricca). Scolate la pasta al dente e trasferitela nella padella insieme ad un paio di cucchiai d’acqua di cottura. Saltatela velocemente e servitela spolverizzando il piatto con un po’ di mollica atturrata, che servirete anche a parte.

Buone cose “milanesi” a tutti.


[1] L’acciuga o alice è un comunissimo pesce che popola le acque del Mediterraneo e vanta molte denominazioni dialettali e locali: viene infatti chiamata “lice” in Puglia, “sardon” dal Veneto alle Marche, “anciuia” in Liguria e “anciova” in Sicilia. Le alici vengono generalmente pescate tra il mese di marzo e quello di agosto, ovvero nel loro momento riproduttivo maggiore, durante il quale si avvicinano alle coste. Sono pesci poco ricercati ma molto gustosi e ricchi di nutrimenti importanti per il nostro organismo. Si prestano ad essere “conservate” sotto sale, sott’olio o marinate. La salagione delle acciughe deriva da un’arte antica di origine etrusca, basata su un procedimento in cui il sale viene alternato ad ogni strato di acciughe, in modo che i pesci alla fine risultino poco visibili

[2] La “passolina” è un’uvetta nera passita molto presente nella cucina della tradizione siciliana. Come suggeritomi dal mio erudito amico Giovanni Rallo, veniva aggiunta alle preparazioni per non fare avvertire l’uso di ingredienti non proprio freschissimi. Col tempo il suo uso è diventato una gustosa consuetudine che apporta una dolce ricchezza ai piatti.

martedì 8 dicembre 2015

Ad ognuno la sua SFINCIA

Sfince di "prescia"

A Palermo la parola sfincia evoca San Giuseppe, in onore del quale sono state create delle morbide “spugne” che vengono “inchiappate” (sporcate) con la crema di ricotta e decorate con i canditi. Ma in verità di sfince ce ne sono di diverso tipo e per ogni occasione: quelle di riso, quelle di “prescia”, con le patate o con la zucca; insomma, un solo piatto, tante varianti.

L’8 dicembre, giorno dedicato alla Madonna e che apre il lungo periodo delle festività natalizie, è tradizione fare le sfince cosiddette di “prescia”, ovvero delle sfere di pasta lievitata e fritta che poi vengono ricoperte di zucchero semolato e cannella. Queste semplici frittelle, tramandateci dagli Arabi, hanno una forma irregolare e una morbidezza tale da farle somigliare a delle spugne, tanto che il loro nome è mutuato dal latino “spongia”.

giovedì 17 settembre 2015

La salsa di pomodoro fresco


In tempi passati era uso e costume preparare con i frutti dell’orto estivi le conserve per l’inverno. Uno dei protagonisti era - e resta - il pomodoro.
Il succoso e rosso ortaggio veniva trasformato in: chiappe (pomodoro secco); pelati; ‘strattu (estratto) e, naturalmente, in salsa. Non poteva mancare nella dispensa una consistente scorta del saporito sugo.
Ancora oggi qualche volenterosa massaia prepara “’a sarsa”, magari con il pomodoro raccolto nel proprio orto. Io sono tra queste, tanto che molte mie amiche e amici mi credono pazza.
Chissà forse lo sarò anche, ma la bontà di questo sugo è difficilmente paragonabile e, ancor meno, avvicinabile a quello delle commerciali passate.
La ricetta che fornisco di seguito è quella che ho imparato dalla madre di mia madre, la nonna Nella, donna raffinata, delicata disegnatrice e grande cuoca.
Nella era il suo soprannome, vezzeggiativo di Francesca. Il suo nome di battesimo era, in realtà, Francesca Margherita. Ma visto che prima nelle grandi famiglie si era soliti dare ai nascituri i nomi degli avi e spesso i cugini si chiamavano tutti allo stesso modo, per differenziarli ed evitare confusioni e scambi di persona, ai bimbi venivano assegnati dei soprannomi.
Dopo questa breve recensione familiare e brevissima storia delle tradizioni, passo all'argomento principale: la salsa di pomodoro che, peraltro, non è detto detto che la dobbiate necessariamente trasformare in conserva. Potete anche realizzarne quantità moderate e servirla con gli spaghetti o con il formato di pasta che più vi aggrada, magari aggiungendo delle melanzane fritte a cubetti e la ricotta salata creando una vera opera d’arte: “la pasta alla Norma”.

martedì 24 febbraio 2015

Perché Scorzonera & Cannella? Why Scorzonera & Cannella?



“Scorzo… cosa?” E la domanda è di norma accompagnata da un’espressione sbigottita come di chi sta tentando di capire un idioma straniero.
Allora ripeto, “Il nome del mio blog è Scorzonera & Cannella, come il famoso gusto di gelato palermitano gelsomino e cannella. Quello che inventarono gli Arabi e poi divenne famoso e à la page durante la Belle Epoque quando Palermo era chiamata Floriopoli, città splendida e meta di tutta l’aristocrazia e l’alta borghesia europea di quella favolosa era.
A quel tempo, il miglior gelato scorzonera e cannella si poteva gustare alla Gelateria Ilardo del Foro Italico, servito in splendide coppe di cristallo per dare risalto anche ai delicati colori di questo delizioso e fresco dessert.

Ecco perché ho scelto questo nome per il mio blog di cucina, perché fortemente legato al territorio e perché connesso con il mio forte senso di identità cultural-popolare.

Vi segnalo anche questi interessanti articoli:

"Scorzo…what?" And, a s a rule, the question is accompanied by a bewildered expression as of whom is trying to understand a foreign idiom.
Then I repeat, "The name of my blog is Scorzonera & Cannella as the famous taste of jasmine and cinnamon ice-cream, traditional of Palermo.
It was invented by the Arabs and then became famous and à la page during the Belle Epoque when Palermo had called Floriopoli, splendid city and destination of the whole aristocracy and the high middle class European of that magnificent era.
At the time, the best ice-cream scorzonera and cannella it could be tasted to the Gelateria Ilardo of the Foro Italico (Palermo’s waterfront), served in splendid cups of crystal also to give prominence to the delicate colors of this delicious and coolness dessert.
That is why I have chosen this name for my kitchen’s blog, because strongly tied up to the territory and because connected with my deep-seated awareness of cultural-popular identity.

sabato 13 dicembre 2014

Evviva Santa Cuccìa...Ops, Santa Lucia


"Santa Lucia, pani vurria, pani nunn'haiu, accussì mi staju"
Oggi 13 dicembre in tante città italiane ed europee si festeggia Santa Lucia, protettrice degli occhi. Per Palermo rappresenta una data particolare che rimanda a tanti secoli addietro e ad una carestia finita proprio il giorno dedicato alla santa nel lontano 1646, grazie all'arrivo in porto di un grosso bastimento carico di grano. Talmente tanta era la fame tra la popolazione cittadina, che non ci fu il tempo di trasferirlo ai mulini per macinarlo e, così, si accesero dei fuochi lungo tutta la costa palermitana e si cosse il grano che venne consumato bollito condito solo con dell'olio d'oliva.

sabato 31 maggio 2014

Melanzane a cotoletta


Quando preparo le melanzane[1] non posso fare a meno di pensare al mio caro amico Claudio di Milano. Lui potrebbe sembrare lo stereotipo del milanese: fighetto, fabrichetta, pago – pretendo. Ma la sua origine “terrona”, nonostante il marcato accento meneghino, viene tradita da una serie di elementi inconfutabili: la sua sagace ironia molto spesso virante al macabro; la sua celata sensibilità e, soprattutto, la sua passione per le melanzane che mangerebbe pure “sbattute al muro”.
E così oggi mi è tornato in mente fortemente mentre preparavo i “mulinciani[2] a cotoletta”, una ricetta della tradizione siciliana ma con chiari riferimenti a Milano.
Praticamente un piatto “fusion-regionale”, che unisce il nord e il sud con la sua panatura dorata e croccante.

sabato 3 maggio 2014

Alici marinate


La cucina è tradizione e, come tale, cultura. Molte ricette delle cucine locali sono intrise di storia e sono tramandate da secoli da generazione in generazione. Alcuni prodotti tipici in molti casi divengono anche simbolo e protagonisti mediatici di un territorio per la loro ritualità, il loro contenuto artistico-manuale e l’estetica che esprimono.
In Sicilia tutto il cibo è simbolo e la cucina tradizionale isolana esprime tutti i caratteri del suo popolo: da quello più “aristocratico”, dei barocchi e opulenti piatti lasciatici dai Monsù; al più “plebeo”, che si ritrova nei piatti del costume agricolo e marinaro.
Oggi, per fortuna, nella società non esistono più barriere sociali dovute a titoli e ad onorificenze e la stessa rivoluzione è stata traslata nella visione della gastronomia. Così molti dei prodotti ritenuti un tempo poco pregiati sono stati riabilitati dal punto di vista dietetico e nutrizionale e riconosciuti come delle prelibatezze, grazie anche alla loro esclusività territoriale.
Tra questi ritroviamo tutto il “pesce azzurro”: sgombri, aguglie, alalunga, sarde, alacce, alici. Questo tipo di pesce è da secoli il frutto della pesca isolana e diverse sono le ricette di cui è protagonista: fritto, arrostito, all’acqua pazza, in agrodolce, marinato, con la cipolla, col sugo.
Le mie preferite sono le alici (o acciughe), se poi sono marinate le trovo irresistibili. Greci e Romani erano maestri nella conservazione del pesce e la ricetta delle “Alici marinate” possibilmente ci giunge proprio da loro. Qua vi propongo quella della mia famiglia.

venerdì 2 maggio 2014

Insalata tiepida di fave


È ancora tempo di fave.
Appassionata e “devota” – oltre che alla Santuzza - ad una cucina che utilizzi prodotti del territorio e di stagione, vi propongo questa volta una ricetta della tradizione della cucina popolare siciliana. Una preparazione molto semplice, di origine contadina, che però esalta il buon sapore del verde legume soprattutto se accompagnato con dell’ottimo olio d’oliva.
Prima di passare alla ricetta, reitero l’unica mia vera raccomandazione: utilizzate prodotti freschi e di prima qualità, sempre!

giovedì 17 aprile 2014

Carciofi alla "Villanella" - Artichokes at the "villanella" (farmer mode)


Ogni famiglia siciliana e palermitana ha la sua ricetta. Io l'ho imparata da mia nonna Nella, madre di mia madre, la quale, dopo averli nettati delle foglie più dure e delle punte, li faceva spaccati a metà e messi in un sol strato in una padella, conditi con aglio a pezzetti, prezzemolo, sale, pepe e abbondante olio extravergine d'oliva e circa mezzo bicchiere d'acqua. Io ho apportato una piccola variante: spolverata di pangrattato tostato ("muddica atturrata" in Siciliano) e li lascio cuocere coperti per circa 20 minuti, o fin quando non risultano morbidi infilzandoli con una forchetta, senza mescolare.

In Palermitano, il carciofo diventa femmina: "a cacuocciula". L'"abitudine" linguistica di declinare alcune parole al femminile è un'eredità lasciataci anche in questo caso dalla dominazione araba. In Arabo, infatti, si dice "Al Kharsuf".



Artichokes[1] to the "Villanella[2]" (farmer mode)
Every sicilian and palermitan family have their own recipe. Well, I have learned it from my grandmother Nella, my mother's mom, which, after to have eliminated the harder external leaves and the extremity, did them broken to half and envoys in a only layer in a frying pan, seasoned with bits garlic, parsley and abundant extravergine olive's oil and a half glass of water. I have brought a small variation: dusting of bread crumb toasted ("muddica atturrata" in Sicilian language) and I let them to cook covered about 20 minutes, or until when they don't result soft pierced them with a fork, without mixing.




[1] “A cacuocciula” in Palermitan language. Many of the palermitans’ words are inflected to female. This linguistic "habit" drift from the Arab language. For example, "a cacuocciula" derives from "Al kharshuf."
[2] U viddanu (villano, in Italian), he who worked the earth and he generally lived in small villages. It was a simple person and without culture. In the common language the word has become synonymous of "boor".




[1] U viddanu (villano, in Italian), he who worked the earth and he generally lived in small villages. It was a simple person and without culture. In the common language the word has become synonymous of "boor".

lunedì 7 aprile 2014

I Pupi cu' l'uovu...Una tradizione buona


A Pasqua molti hanno l’imbarazzo della scelta tra l’uovo e la colomba. Vi voglio indicare una terza via, anzi trazzera visto che si tratta di un’antica tradizione siciliana.
La ricetta di questi biscotti pasquali mi è stata "regalata" da mia Zia Dora, splendida donna carinese che non sta ferma un attimo e riesce a sfornare dolci e prelibatezze in quantità quasi industriali. Io la ho leggermente personalizzata, aggiungendo l’aroma di vaniglia e una quantità minore di latte al fine di ottenere una pasta più simile alla frolla. Dei "Pupazzi con l'uovo" ne ho parlato nell'articolo dedicato a quelli che fanno a San Fratello (ME), non mi dilungherò dunque nuovamente nella loro descrizione. Voglio invece qui scrivere dell'importanza simbolica di questo alimento che in questi dolci pasquali viene inserito sodo con tutto il guscio.