giovedì 20 giugno 2013

DALLA PERCEZIONE DEI SENSI ALL'EMOZIONE DELL'ANIMA

Oggi non pubblico una ricetta, ahivoi, ma alcune riflessioni sparse buttate giù per un intervento fatto qualche mese fa ad un seminario dell'Istituto di Bioarchitettura sezione di Trapani, invitata dal Presidente Salvatore Cusumano a parlare di come il cibo influisca sul nostro stile di vita e sulle nostre emozioni.
Nel breve saggio (mi sento molto "luminare" - o forse meglio "luminaria"?), che ho intitolato "Dalla percezione dei sensi all'emozione dell'anima. Il cibo come sostanza della vita e il convivio come metafora dell'esistenza", ho provato, aiutata da qualche interessante lettura "omogenizzata" con quello che è il mio pensiero, a trasferire come il cibo non sia solo "necessario" al corpo - attraverso il quale passa la nostra conoscenza del reale sperimentato - ma anche alla mente e all'anima. C'è anche riferimento al piacere e ai sensi come approccio edonistico alla vita, negandone però l'accezione negativa e affermandone quella di conoscenza profonda.
Spero non tediarvi troppo e, non preoccupatevi, non capiterà reiteratamente che scriva di filosofia gastronomica o di gastronomia filosofica perché, per fortuna vostra e mia, non mi capita spesso di pensare.

Marmellate, Zenzero candito e Cioccolato fondente al 85%

Per secoli la filosofia e i suoi artefici, fortemente influenzati dal pensiero platonico, hanno focalizzato la loro attenzione sullo studio dell’anima cercando di fare dimenticare all'uomo di avere un corpo.
Il corpo è stato maltrattato, trascurato, martirizzato da Platone, al quale poi si è aggiunto tutto il ciclo dei pensatori cristiani.

L’elogio della filosofia idealistica, spiritualistica, platonica è sempre stato accompagnato da una forte critica alla filosofia materialistica, sensistica, epicurea, edonistica. Nella storiografia classica e nella tradizione filosofica il pensiero dominante è quello dell’ideale ascetico in contrapposizione al maligno “piacere della carne”. Il corpo che mangia è una blasfemia, se l’ideale è l’anima che freme per unirsi all'Unico Bene.
All'opposto, ho invece fatta mia l’idea aristotelica secondo cui l’uomo non sia una macchina fatta di pezzi scomponibili, ognuno con una vita a sé stante, quanto piuttosto un insieme unico/totale, un “sistema olisitico” (holos=intero) intelligente e misterioso composto da corpo-mente-emozioni-anima-energia,che quando funziona bene esprime la massima delle armonie. (L’olismo è alla base di tutta la speculazione filosofica-teologica orientale: India, XIII sec. a C. e Taoismo, VI sec. a C.)[1]
La stessa visione olistica si può avere per tutte le sfere dell’agire umano. Sono molto vicina, in tal senso, al pensiero del filosofo francese contemporaneo Michel Onfray il quale sostiene nel suo I filosofi in cucina – Critica della ragione dietetica che la filosofia non può essere scissa dalla vita, perché ogni minuto può essere vissuto filosoficamente. Quindi, la tavola, come pure il talamo, sono un luogo altrettanto filosofico quanto la scrivania o la biblioteca. Non esistono argomenti filosofici (la ragione, la percezione, ecc.) e argomenti che invece non lo sono, come l’erotismo o la gastronomia. Esistono invece trattamenti filosofici di tutte le questioni possibili. J.P. Sartre, ad esempio, non è filosofo solo quando scrive la Critica della ragione dialettica (fatto tra l’altro sotto effetto del Corydrane), ma lo è anche quando esprime, da un lato, il suo disgusto per le ostriche e per la Natura pura e, dall'altro, la sua passione per i salumi (la quintessenza dell’artificio umano in gastronomia) che rappresentano la vittoria della cultura che lavora “la natura” e la trascende subliminandola.
Nietzsche è il filosofo che, più di ogni altro, ha affermato il ruolo determinante del corpo nell’elaborazione di un pensiero, di un opera. Il corpo come fonte di conoscenza attraverso i sensi.Il filosofo tedesco era convinto che tutto ciò che entra nel corpo non vi entra impunemente ed inutilmente e modifica le connessioni che formano un’idea, uno stato d’animo, un pensiero. Si ritrovano in lui gli echi di Feuerbach il quale affermava che l’uomo è ciò che mangia, ma anche di Brillat-Savarinche nella Fisiologia del gusto scrive: “dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei”.
La gastronomia parla a nostra insaputa e racconta inavvertitamente, tradisce offrendo una psicologia, una sociologia. Se osservate il comportamento di qualcuno a tavola, vi vedrete, come un animale nel suo territorio, un individuo esibirsi involontariamente perché non sa che in quel momento di lui si vede tutto”[2].
Onfrey considera la gastronomia come una categoria estetica, come un’arte, perché convinto che oggi sia necessario superare l’antiquata estetica del Bello in sé (Platone, Kant, Luc Ferry…). La rivoluzione in tal senso è stata operata da Duchamp che con la sua estetica del "ready-made" dà l’opportunità di aprire il campo dell’arte a tutti gli oggetti anche di uso quotidiano (si pensi al suo Allevamento di polvere che fa della polvere un supporto estetico).
Anche i cibi, le sostanze cucinate possono dunque assumere forme d’arte.
L’estetica classica fa una gerarchizzazione dei cinque sensi assegnando alla vista e all'udito, i sensi che tengono a distanza la materialità del mondo, una priorità che permette di fare della pittura e della musica delle arti maggiori. Al contrario, il tatto, l’odorato e il gusto sono messi in secondo piano e con essi le discipline collegate: cucina, enologia, profumi.
Il nocciolo della questione sta nel fatto che il “piacere”, per gli Idealisti e i Cristiani è stato inteso con accezione negativa e la loro concezione ha influenzato tutta la cultura, il pensiero e la morale occidentale e puritana.
Ancora oggi la questione del piacere è una questione spinosa che crea rigurgiti moralistici, moniti salutistici e accuse di superficialità.
Il piacere è inteso ancora quale sinonimo di eccesso, di libertinaggio, di lusso che in pochi possono concedersi. Nessuno vorrebbe dare in sposo il proprio figlio ad una donna “dedita al piacere”, o la propria figlia in sposa a qualcuno considerato un "libertino".
Ci comportiamo come se il lavoro e il dovere/sacrificio siano cose naturali mentre il piacere sia “artificiale” e costoso. In verità, come sostiene Giorgio Bert nella sua Fisiologia del piacere (1989): “…Il piacere… è naturale quanto (e forse più) del lavoro (che può essere del resto anch'esso fonte di piacere) o del dovere e del sacrificio, questi sì prevalentemente culturali”.
Il gusto e la tavola possono essere, e sono, anch'essi fonte di piacere, l’importante è avvicinarsi alla gastronomia senza pregiudizi e preconcetti e senza appiattimenti monotematici. Puoi mangiare la cosa più deliziosa del mondo, ma se la mangi ogni giorno diviene essa stessa routine e dunque scade nella sua funzione di sorpresa e sollecitazione dei sensi e, dunque, di piacere.
Da anni il movimento di Slow Food, nato in Italia e poi diffusosi in tutto il mondo, cerca di diffondere una cultura di ricerca del piacere attraverso la riappropriazione della diversità, anche attraverso la salvaguardia del territorio e del patrimonio agroalimentare di qualità.
Bisogna ritrovare e promuovere il piacere gastronomico e la convivialità attraverso un approccio al cibo basato sul vantaggio edonistico della conoscenza approfondita, dell’educazione sensoriale e del convito armonioso.
Convivio, che deriva dal latino “cum vivere” (vivere insieme; coesistere), designa l’identità tra l’atto del mangiare e quello del vivere, tra il cibo e la vita. E poiché il cibo è sostanza della vita perché è ciò che materialmente la consente, il termine si presta ad essere metafora dell’esistenza: materia e metafora si intrecciano e si (con)fondono l’una con l’altra.
Un buon convito è dunque metafora di una buona qualità di vita.


[1] Per quanto l'olismo nasca in Occidente soltanto nel XVII secolo con il panteismo di Spinoza, esso fonda le filosofie orientali sin dal XIII secolo a.C. Le filosofie-teologie indiane sono infatti tutte olistiche, e l'olismo è uno degli elementi di base di tutta la speculazione orientale, quale si ritrova anche in Cina nel Taoismo, che si origina nel VI secolo a.C. circa. Quindi, la sua identificazione e definizione ha luogo in Occidente con grande ritardo, solamente dal XX secolo, basandosi su una tradizione che è riferibile soltanto al Neoplatonismo (III-VI secolo) e in particolare in Plotino (III secolo). Tradizione assai debole quindi nel mondo giudaico-cristiano, se si esclude, appunto, Baruch Spinoza e prima di lui Giordano Bruno. Spinoza con un'originalissima interpretazione della Bibbia si oppone al dualismo cartesiano con il suo panteismo (Dio è il Tutto). Più tardi, in qualche misura, anche Johann Wolfgang von Goethe che raccoglieva suggestioni mistico-olistiche del pensiero tardo-medievale può essere considerato un olista. Egli traduce infatti nella suateoria dei colori, dove la luce bianca (come sommatoria dei differenti colori dell'iride) non sarebbe considerabile come mera somma delle frequenze elettromagnetiche dei suoi componenti, un concetto olistico che il Romanticismo tende a rivitalizzare.

[2] Michel Onfray – I filosofi in cucina, Ponte delle Grazie, 2011 - Milano



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