A San Martino
si tasta ‘u vino
Quando ero molto piccola, la domenica spesso
andavamo a pranzo dai nonni paterni. E mentre mia madre e la nonna Zina
cucinavano ed apparecchiavano la tavola, il nonno Tommaso – con la sua giacca
da camera a quadri di alpaca - mi prendeva in braccio, si dirigeva verso la
poltrona del salotto e, adagiandomi sulle ginocchia, cominciava a narrarmi le
storie dei paladini di Francia. Era un rito a cui non potevamo rinunciare ed è
forse il ricordo più bello che ho di lui. Ho ancora nelle orecchie la sua voce
sonante che recitava a memoria alcuni passaggi dell’Orlando furioso,
intercalandoli con aneddoti in prosa – molti da lui inventati - ricchi di scene
di battaglie e d’amore: “E così Orlando, in groppa al fido Brigliadoro,
galoppava per le terre siciliane alla ricerca disperata del suo amore Angelica.
Nel suo girovagare spesso si imbatteva in truppe di Saraceni che sfidava con folle
coraggio. Combatti vile infedele,
urlava mio nonno-Orlando, e sguainando la magica Durlindana faceva saltare le
teste dei suoi nemici in difesa dell’onore della sua bella”.
A parte che, da adulta ho iniziato a “tifare” per
gli Arabi e, in particolare per Medoro che aveva sposato la bionda Angelica, in
alcuni periodi dell’anno le storie cambiavano soggetto ed erano dedicate ai
personaggi dei quali ricorreva la festività o la commemorazione.
E così, in un lontano novembre degli anni Settanta,
venni a sapere di Martino[1],
giovane nobile della Pannonia (l’attuale Ungheria), che costretto ad arruolarsi
tra le file dell’esercito romano passò l’intera vita in Gallia indossando la divisa
della guardia imperiale.
“Martino era bello, fiero ed elegante ed aveva un
animo nobile. Una notte fredda e piovosa di tanti e tanti anni fa, mentre era
di ronda incontrò un povero quasi nudo che tremava. Allora Martino non ci pensò
due volte, prese il suo mantello, lo tagliò in due con la spada – una spada
c’era sempre nei suoi racconti – e metà lo diede al pover’uomo che lo ringraziò
infinitamente per quel bel gesto inaspettato. La notte dopo gli apparve in
sogno Gesù con la metà della sua cappa militare che diceva agli angeli:
Martino, il soldato romano senza battesimo, mi ha vestito. Quando Martino si
svegliò si accorse del miracolo, il suo mantello era di nuovo intero”.
Alla fine di ogni storia, lo guardavo stupita e
contenta e gli battevo le mani. Quella volta ricordo fui ancora più felice
perché mi promise che alla fine del pranzo mi avrebbe dato un bel biscotto di San Martino fatti dalla
nonna il giorno prima.
E come per Proust le madeleines, ancora oggi quando
mangio questi biscotti profumati d’anice i sensi mi riportano alla mia infanzia
e riprovo le sensazioni di quando bambina stavo sulle ginocchia di mio nonno
ghiotta di conoscere le storie antiche e soprattutto sperando di poter mangiare
delle golosità a loro legate.
Ora, finito il momento amarcord, vi do la ricetta
dei biscotti di San Martino della mia famiglia.
Ingredienti: 1 kg. di farina
tipo 0; 300 gr. di strutto; 200 gr. di zucchero; 30 gr. di lievito di birra; 40
gr. di semi di anice; circa 400 ml acqua (dipende dal tipo di farina che si
utilizza); una spolverata di cannella e sale q.b.
Procedimento: Sciogliete il
lievito in un po’ di acqua tiepida. Sciogliete anche lo strutto a fuoco molto
lento e versatelo nella farina fatta a conca, unita con lo zucchero e i semi di
anice. Impastate tutti gli ingredienti e dopo qualche minuto, per evitare che
pregiudichi l’attivazione del lievito, aggiungere un pizzico abbondante di
sale. Continuate ad impastare fin quando il composto non sarà omogeneo e
compatto (deve avere la consistenza della sfoglia per fare i ravioli).
Mettere l’impasto in una ciotola, che sigillerete
con della pellicola per alimenti, e lasciate lievitare fin quando non avrà
raggiunto il doppio del suo volume originario.
A questo punto, dividete l’impasto in tanti piccoli
pezzi di circa 40 grammi ciascuno, e fatene dei bastoncini lunghi 6-7 cm. e di
circa mezzo centimetro di diametro. Aiutandovi con l’indice, avvolgeteli su sé
stessi per realizzare la tipica forma a chiocciola.
Fate scaldare il forno a 200° C. Riponeteli su una
placca ricoperta da carta forno ed infornate per circa 20 minuti controllando
che non si coloriscano troppo.
In questa prima fase di cottura – questi
biscotti infatti sono dei tricotti e, dunque, vanno infornati per ben tre volte
per raggiungere la giusta consistenza – potete realizzare quelli che a Palermo
vengono chiamati rasco[2].
Io preferisco la versione croccante e se anche voi
avete i miei gusti li dovrete infornare per altre due volte, prima a 180° e poi
a 160°, per circa 15 minuti per volta.
Lasciateli raffreddare e serviteli con un buon
Moscato o con un vino dolce di vostro gradimento dove tufferete i biscotti. Io,
ad esempio, preferisco il Passito di Pantelleria non solo per il suo
incomparabile sapore ma anche per il romantico mito di Tanit[3],
la dea punica della fertilità, dell’amore e del piacere nonché protettrice di
Cartagine. Ma questa è un’altra storia. L’undici novembre quello che conta è
che assuppate[4]
i biscotti.
P.S.:
naturalmente tanti sono i riferimenti alla tradizione di San Martino, ma è
inutile tediarvi oltre che con le mie storielle anche con notizie che potete
trovare facilmente nel web.
[2]
Ad essere sincera non conosco l’origine di questo nome e le mie ricerche
etimologiche non hanno avuto esito positivo; ma, per deduzione, credo che
derivi dal fatto che i biscotti vengono svuotati, dunque raschiati, all’interno
per essere poi riempiti o con la crema di ricotta definiti con zucchero a velo
e cannella o con la conserva di cedro e zuccata ricoperti di glassa bianca e
decorati con i confettini colorati.
[4] Traduzione
per i non siculi: Inzuppate.
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